Tutto quello che siamo riusciti a costruire in questi anni è dovuto certamente al nostro impegno e alle nostre iniziative, ma soprattutto alla solidarietà di tante persone e istituzioni sensibili a tali e tanti problemi che sembrano così lontani da noi. Dare è uscire un po’ da noi stessi per andare incontro all’altro, per partecipare alle difficoltà delle persone meno fortunate. Questo certo non è tutto e non possiamo racchiudere il concetto di solidarietà nel solo dare, infatti, l’essere solidali, è un atteggiamento della vita che dilata in vastità e profondità l’esistenza dell’uomo, la arricchisce, ci offre al mondo e agli uomini. La solidarietà in se avrebbe poco senso se non fosse alimentata dalla speranza. Se noi non avessimo fiducia che quello che facciamo non porterà ad alcun cambiamento, se non avessimo la speranza in questa parte del mondo, come potremmo averne per il Perù, dove i problemi sono molto più grandi che da noi!
Tutte le volte che qualcuno della nostra associazione si reca in Perù per la prima volta, rimane colpito dalla miseria che affligge questo paese, come del resto tutta l’America Latina e gran parte del mondo. Denutrizione cronica, malattie, problemi sociali, bambini abbandonati, questi e molti altri ancora sono i problemi che ci scuotono dentro. Nasce da qui una necessità intima di fare qualcosa, quindi ci si rimbocca le maniche, si valuta e si progetta ciò che è più utile alla comunità, coinvolgendo le persone e le istituzioni del posto, a seconda delle risorse disponibili. Fare insieme, costruire insieme al nostro prossimo, ecco come essere più vicini all’altro.
Vivendo quotidianamente la realtà del Perù ci si rende conto di quanto sia lontano il nostro modo di vivere, di pensare, di rapportarsi con le persone. Qui è tutto diverso. Ci si deve cambiare per entrare in una relazione più profonda, non basta dare o fare, bisogna lasciarsi coinvolgere. Si corre altrimenti il rischio di rimanere su di un piedistallo con la mano tesa verso il basso, con un atteggiamento di chi commisera dall’alto e sa di essere quello che possiede e che dona. Non si deve tendere la mano dall’alto, ma bisogna prenderci per mano e calarci nella loro realtà, rispettando la loro cultura e cercando nella diversità la ricchezza. Questo è il modo di costruire insieme.
La nostra esperienza ci ha fatto capire che non si deve valutare il nostro impegno solo da quante mense e dispensari si riesce a costruire e a tenere in esercizio. Il nostro riferimento quindi non deve essere quanto si riesce a dare e a fare, ma quanto si riesce ad essere e a condividere.
Condividere è una delle parole chiave della nostra esperienza. Il nostro impegno è rivolto alle popolazioni più povere delle Ande peruviane e il vero incontro si ha quando si condivide, ma non tanto ciò che abbiamo con noi, ma ciò che hanno loro: l’atteggiamento di umiltà e di servizio ci porta all’incontro con queste persone, quindi il modo di legare con loro un rapporto di solidarietà è vivere come loro, mangiare con loro, viaggiare con loro, farsi come loro. Bisogna cogliere e sentire la loro fierezza, la loro dignità, la loro ospitalità, non solo quindi i problemi cronici di questo popolo e i modi con cui affrontarli.
La solidarietà deve essere un atteggiamento di vita che in questi paesi richiede un coinvolgimento totale della persona e che si deve manifestare tramite il dare, il fare, il donarsi, l’essere, il condividere, il servire.
Nell’esperienza di questi anni ci siamo posti una serie di domande che si possono riassumere nel chiedersi: perché tutto questo? Come possiamo cambiarlo? Da lontano sembra che le situazioni si creino per fatalità, però guardando meglio si capisce che non è proprio così: certo è che la regione inka non è molto fertile e le vie di comunicazione sono difficili da praticare e di per se isolate a causa dell’altitudine, ma non possono essere solo queste le risposte. Ci sono molte situazioni create dall’uomo che affliggono questo popolo come la disgregazione sociale, l’abbandono dei bambini, lo sfruttamento delle multinazionali, la situazione della donna, il lavoro minorile, la corruzione, la fame. Ogni giorno alle porte del gruppo Agape a Cuzco bussano decine di persone per chiedere aiuto: chi è ammalato, chi ha subito un’ingiustizia, chi è stato derubato. Spesso non possiamo far niente per questa gente se non accoglierla. Infatti, in un paese come questo, è già qualcosa di importante per un povero sentirsi ascoltato. Milioni di persone non contano niente e non sanno che pure loro hanno dei diritti. Dobbiamo farci carico di questa gente, porci in un ascolto attento e quindi gridare le ingiustizie e farsi voce anche per chi non ne ha.
Questa è la vera povertà, l’uomo che rende povero un altro uomo. La fame è una conseguenza, come le malattie e la denutrizione, le donne violentate e abbandonate, l’assenza dei diritti, i bambini sfruttati quattordici ore il giorno per lavorare in condizioni estreme a cinquemila metri di altitudine.
Questa è la vera sfida alla quale dobbiamo trovare una risposta. Quale speranza si può opporre a tutto questo? L’unica risposta che sappiamo dare è riposta nell’ideale che ci spinge ad impegnarci per costruire un mondo più giusto. Dobbiamo imparare a guardare le piccole cose in un contesto più ampio e universale, non fermarci ai risultati immediati, ma essere dei seminatori di speranza attraverso la solidarietà. Si deve essere testimoni con la nostra vita di ciò in cui crediamo, cioè l’uomo nuovo, l’uomo delle beatitudini. Già sono state troppe le rivoluzioni con le armi che annientano l’uomo senza liberarlo, c’è bisogno di un’altra strada, cioè la rivoluzione del cuore, che è molto più lenta, ma è liberante. La solidarietà è la strada che porta alla pace, la pace è figlia della solidarietà, così come la solidarietà è figlia della speranza, che per noi nasce dall’uomo nuovo Gesù Cristo e il Vangelo.
Riccarda